La Nato è a Kabul. Ma chi ha visto il mandato Onu?

di Manlio Dinucci
«La missione Isaf ha avuto dall’Onu un mandato robusto»: questo concetto, ribadito dal segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer nell’intervista al Corriere della Sera (10 giugno), è non solo il cavallo di battaglia dei sostenitori dell’intervento militare italiano in Afghanistan, ma un luogo comune diffuso anche tra gli oppositori: si dà per scontato che esista una «investitura Onu alla missione Nato Isaf».

Ma quale risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato a condurre la missione Isaf?
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza il 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art.7 della Carta delle Nazioni unite, l’impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu».
E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere il comando dell’Isaf. Anche nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che autorizza l’Isaf a operare «in aree esterne a Kabul e dintorni», e nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la missione, da questo momento, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. E poiché il «comandante supremo alleato» è (per diritto ereditario) sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono.
Nella stessa catena di comando sono inseriti i mille militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei da trasporto. Ora la Nato chiede all’Italia di accrescere la sua partecipazione e di inviare anche cacciabombardieri per estendere l’area di operazioni, nel quadro della decisione (presa al Pentagono) di aumentare gli effettivi Isaf da 9 a 16mila così che gli Usa possano ridurre quelli dell’operazione Enduring Freedom (oggi 23mila). Contemporaneamente l’Italia viene chiamata ad assumersi maggiori compiti anche in questa seconda operazione sotto comando Usa. Qui ha una partecipazione numericamente minore (circa 250 uomini), ma non meno significativa. Otto ufficiali italiani sono già stati integrati nel quartier generale del Comando centrale statunitense a Tampa (Florida), che ha la responsabilità di Enduring Freedom. Lo stesso Comando ha deciso di mettere un ammiraglio italiano, dal 28 giugno alla fine di dicembre, a capo della Task Force 152 che opera nel Golfo persico. Per consentire «un adeguato periodo di ambientamento» – informa il Ministero italiano della difesa – la fregata Euro, che sarà affiancata da altre due unità, è passata sotto il «comando statunitense imbarcato sulla portaerei Ronald Reagan».
Il coinvolgimento italiano in Afghanistan non si può dunque misurare solo in termini numerici. Partecipando a questa come ad altre guerre sotto presunti «mandati Onu», le nostre forze armate vengono inserite in meccanismi sovranazionali che le sottraggono all’effettivo controllo del parlamento e dello stesso governo, legando sempre più il nostro paese al carro da guerra statunitense