La conquista dell’Africa decolla da Vicenza

Manlio Dinucci
Il giorno prima dell’occupazione dell’aeroporto Dal Molin per impedire la costruzione della nuova base Usa, è giunta a Vicenza da Washington la vice-segretaria della Difesa per gli affari africani, Theresa Whelan, per confermare che Vicenza avrà un ruolo sempre più importante nella strategia statunitense.

Il giorno prima dell’occupazione dell’aeroporto Dal Molin per impedire la costruzione della nuova base Usa, è giunta a Vicenza da Washington la vice-segretaria della Difesa per gli affari africani, Theresa Whelan, per confermare che Vicenza avrà un ruolo sempre più importante nella strategia statunitense. Lo scorso dicembre, infatti, la Forza tattica nel Sud Europa (Setaf) è stata trasformata nello U.S. Army Africa (Esercito Usa per l’Africa), componente del Comando Africa (AfriCom) divenuto operativo in ottobre. In un seminario svoltosi alla Caserma Ederle, ora quartier generale Setaf / U.S. Army Africa, la Whelan ha sottolineato che tale trasformazione costituisce «un nuovo modo di guardare all’Africa».
La Whelan e il gen. William Garrett, comandante dello U.S. Army Africa, hanno spiegato che il nuovo comando si concentra sull’addestramento di militari africani, fornendo anche «la guida su come gestire le loro forze». In questo è affiancato dal Centro di Eccellenza per le Stability Police Units (CoESPU), istituito dai Carabinieri a Vicenza per addestrare forze di «peacekeeping» in gran parte africane: la Wheelan vi si è recata in visita, intrattenendosi in particolare col vice-direttore del Centro, il colonnello Charles Bradley dello U.S. Army. Il quartier generale di Vicenza opererà nel continente africano con «piccoli gruppi» (complessivamente, all’inizio, 600 uomini), ma sarà pronto, se necessario, a condurre operazioni di «risposta alle crisi», servendosi della 173a brigata aviotrasportata, di stanza a Vicenza. I «piccoli gruppi», comprendenti anche unità della Guardia nazionale e della Riserva, attueranno in Africa «programmi di cooperazione», aiutando a «promuovere la stabilità regionale e le relazioni tra civili e militari». Nei prossimi anni, ha sottolineato il gen. Garrett, «lo U.S. Army Africa continuerà a crescere». Crescerà di pari passo il ruolo del comando delle forze navali AfriCom, situato a Napoli. Si tratta di un «impegno prolungato», frutto del «riconoscimento americano della crescente importanza strategica dell’Africa».
A riconoscere tale importanza non sono però solo gli Usa. Lo dimostra l’affollamento di navi da guerra lungo le coste del Corno d’Africa, con la motivazione della lotta contro i pirati somali. In quest’area strategica ‒ comprendente il Golfo di Aden all’imboccatura del Mar Rosso (dove, a Gibuti, è stazionata una task force statunitense) ‒ incrociano la Combined Task Force 151, una forza navale Usa cui partecipano unità di 20 paesi alleati; lo Standing Nato Maritime Group 2, un gruppo navale Nato, e la EuNavFor Atalanta, una squadra dell’Unione europea. Ma sono presenti anche navi da guerra cinesi e russe, cui si aggiungeranno quelle giapponesi. E lo scorso dicembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità una risoluzione, presentata dagli Usa, che autorizza a «inseguire i pirati all’interno della Somalia». Qui, dopo il ritiro delle truppe etiopi (inviate nel 2006 in una operazione a regia Usa), i movimenti islamici hanno ripreso il controllo del territorio.
In questa e altre zone ‒ soprattutto l’Africa occidentale, ricca di petrolio e altre materie prime strategiche ‒ l’AfriCom fa leva sulle élite militari per portare il maggior numero di paesi africani nella sfera d’influenza statunitense. Compito non facile, sia per la crescente resistenza delle popolazioni (in particolare nel delta del Niger), sia per la crescente concorrenza cinese. La Cina è il secondo partner commerciale dell’Africa, dopo gli Stati uniti, ma i suoi investimenti sono in forte crescita anche nei paesi più legati agli Usa. In Etiopia, lo scorso gennaio, la China Exim Bank ha investito 170 milioni di dollari per la costruzione di un complesso residenziale di lusso ad Addis Ababa, e un’altra società cinese, la Setco, ha annunciato la costruzione della più grande fabbrica di pvc del paese: In Liberia, la China Union Investment Company ha investito 2,6 miliardi di dollari nelle miniere di ferro. Società cinesi hanno effettuato grossi investimenti (2 miliardi di dollari per paese) anche nei settori petroliferi di Nigeria e Angola, finora dominati dalle compagnie occidentali. Ma la concorrenza cinese agli Usa non si limita al piano economico. Pechino sostiene governi, come quelli dello Zimbabwe e del Sudan, invisi a Washington, ai quali fornisce anche armi.
E’ una tacita, ma per questo non meno reale sfida agli interessi statunitensi e occidentali in Africa, la cui «crescente importanza strategica» è chiara non solo a Washington ma a Pechino. Da qui il «nuovo modo di guardare all’Africa», cui l’Italia si accoda, che in realtà è solo un modo nuovo di realizzare la vecchia politica coloniale.