La difesa Il «nuovo modello», bipartisan e «proiettabile» all’estero, comincia 15 anni fa con la prima guerra in Iraq
Manlio Dinucci
Come sono e dovranno sempre più essere le forze armate che oggi sfilano in via dei Fori Imperiali? Lo spiega il ministero della difesa, dove il 18 maggio è avvenuto il passaggio di consegne da Antonio Martino ad Arturo Parisi. Nell’annunciare la «tradizionale parata militare del 2 giugno», esso afferma che prosegue «con grande visione prospettica» il processo di trasformazione delle forze armate per creare «uno strumento militare totalmente professionale, proiettabile, pienamente interforze e interoperabile con i nostri alleati», il cui scopo è «sostenere e valorizzare l’immagine e il ruolo internazionale dell’Italia». Così, mentre da un lato si annuncia il ritiro del contingente dall’Iraq (garantendo però «una nostra presenza incisiva a sostegno dell’amministrazione irachena»), dall’altro si annuncia l’ulteriore trasformazione della natura e del ruolo delle forze armate, i cui ultimi sviluppi sono stati gli interventi in Afghanistan e Iraq.
La mutazione genetica delle forze armate inizia quindici anni fa quando – subito dopo la guerra del Golfo, la prima cui partecipa la Repubblica italiana – il governo Andreotti vara nell’ottobre 1991 il «nuovo modello di difesa» sulla scia del riorientamento strategico Usa: esso stabilisce che compito delle forze armate italiane non è solo la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma la «tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario». Contemporaneamente, all’art. 11 sul ripudio della guerra quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali si sostituisce il criterio degli «interventi militari per la gestione delle crisi» ovunque siano toccati gli «interessi vitali» del paese. Una volta varato, il nuovo modello di difesa passa da un governo all’altro, dalla prima alla seconda repubblica, con un sostanziale appoggio «bipartisan» alle successive elaborazioni fatte dai vertici delle forze armate.
Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa afferma che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto viene ulteriormente sviluppato: «La politica della difesa – sostiene il generale Angioni – diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera». Nel 1999 – dopo che il governo D’Alema ha fatto partecipare l’Italia, sotto comando Usa, alla guerra contro la Jugoslavia – viene varato il disegno di legge n. 6433: esso afferma «la necessità di trasformare lo strumento militare dalla sua configurazione statica ad una più dinamica di proiezione esterna», compito per cui è adatto «il modello interamente volontario».
Nasce così l’esercito di professionisti della guerra, per il cui reclutamento vengono stabiliti vari incentivi: da indennità di missione di 4 mila euro mensili (aggiunti alla paga) alla possibilità di laurearsi grazie a 110 crediti su 180 concessi ai sottufficiali. E, una volta terminato il servizio militare, si garantisce loro un posto nella polizia, nei carabinieri, nelle guardie forestali e in altri settori statali. Contemporaneamente si dotano sempre più le forze armate di sistemi d’arma idonei alla «proiezione esterna». Tra questi la nuova portaerei Cavour (costo 2,7 miliardi di euro) che – dichiara il presidente Ciampi alla cerimonia del varo nel luglio 2004 – «costituirà presidio della libertà di commercio, di scambi, di relazioni tra i popoli». Una vera e propria base militare galleggiante, dotata di caccia Harrier e in futuro dei Joint Strike Fighter della Lockheed (di cui l’Italia acquisterà 130 esemplari per l’ammontare di oltre 5 miliardi di dollari. Ma potrà anche imbarcare oltre 400 uomini del Reggimento San Marco e veicoli da combattimento, compresi 24 carri armati Ariete. Sarà così in grado sia di attaccare dall’aria che di sbarcare truppe e mezzi per occupare un lontano territorio. Questo sforzo bellico ha portato l’Italia al settimo posto mondiale come spesa militare, con circa 28 miliardi di dollari annui (pagati col denaro pubblico).